La percezione del corpo in Arcano XIII (2020) di Diana Gianola
- 3 mar
- Tempo di lettura: 2 min
Come può la percezione del proprio corpo passare attraverso lo schermo?
E in che modo una simile trasfigurazione può contribuire a forgiare un personale stile di ripresa?
Arcano XIII non ama le mezze misure. Invita piuttosto lo spettatore a confrontarsi con la scomodità del contrasto e ad assistere, dall'interno, agli intermezzi di una continua trasformazione.

In Arcano XIII i primi piani della figura umana sono fuori fuoco e l'attenzione dello spettatore viene spesso dirottata ai margini dell'inquadratura.
Nello short film diretto da Diana Gianola questa scelta si presenta attraverso un dipinto astratto che - ad ogni ingresso della memoria - si fa ritratto post-moderno.
Uno scenario forse atipico ma che appare di volta in volta come appena innescato da potenti flussi intangibili, i quali fanno tesoro di una tenera, e veemente assieme, multisensorialità.
La danza dei colori che diventano immagini d'archivio (personale della regista) per poi tornare a essere forma dona allo spettatore la percezione del viaggio introspettivo. Un viaggio che nella sua interezza sembra percorrere un sentiero che conduce a una biforcazione di storie in cui rimandano entrambe a un vicino presente.

Vi si rintraccia il massimo dell'espressività, nel film, nei quesiti rivolti dalla voce interiore, quanto dalle modalità di messa a fuoco della forma del corpo. Tale cambiamento nel profilmico è anche cambiamento nel tempo?
L'opera filmica della regista si sviluppa anche nei bordi.
In spigoli di cielo che preservano una futura nitidezza e, nel frattempo, contengono l'irraggiungibile.
Attraverso la creazione di un ambiente interiore, di un flusso che ha direttamente a che vedere con la percezione del proprio corpo, una luce arancio coinvolge lo spettatore approdando nella ricerca di una più vasta colorazione, quasi pastello, per poi tornare al tipico luccichio degli occhi in compagnia di nemiche luci rosse o amiche sfere stroboscopiche. Il tempo di visione suggerisce che, in pochi minuti, lo spettatore possa viaggiare dall'infanzia all'età adulta.
Ad ogni modo quel che colpisce lo spettatore, nella prima parte del film, è il modo con cui la mancata percezione del corpo si trasfigura divenendo presenza attraverso la manifestazione di un personale stile di ripresa. Difatti, lo spettatore, pur non potendo accedere inizialmente alla visione nitida della figura umana intraprende uno sforzo. Un tentativo di guardare oltre che, nell'invito ad allontanarsi dai bordi, dalla superficie, si instaura nella volontà dello spettatore, rendendolo attivo e partecipe.
Questo (si potrebbe dire: "sofferto") tentativo diventa ascolto, nella visione, e crea una forte connessione tra il pubblico e lo schermo, il quale trova infine conforto nel ritrovare le stesse immagini nitide più avanti.
L'avamposto degli occhi finalmente rivelati di quella figura umana sono come una fenice, può anch'essa ora guardare in direzione delle poltrone grazie a un definitivo, più che conclusivo, sguardo in camera.



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