Cinema e letteratura stratificano e bruciano la provocazione ne L'uomo più odiato del mondo (2025) di Jacopo Spanò
- 13 set
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Se bruciare è meglio di brillare a deciderlo è il giovane regista Jacopo Spanò all'apertura del primo episodio di Filmucci - Piccoli film sul grande schermo - prima rassegna permanente che porta nelle sale del cinema Greenwich, nel cuore di Trastevere, la voce di giovani autori per riconsegnare pubblicamente al cinema indipendente, che essi rappresentano, la sua importanza. Spanò presenta per l'occasione il suo nuovo cortometraggio dal titolo L'uomo più odiato del mondo (2025).

Dialogando con il diritto alla rivoluzione finora preservato dal collettivo cinematografico Chuormo, che ha ideato la rassegna e che, durante tutta la serata, ha tenuto a mantenere il suo «scanzonato ritmo», ormai amato distinguo dallo scenario cinematografico presente in innumerevoli serate di proiezioni e condivisione da Chez Chuormo, Spanò rivolge a centinaia di spettatori più di una domanda, invitando nel frattempo anch'essi a chiedersi perché proprio tutti siano arrivati a odiare l'innominabile.

Dopo una sequenza di filmati d'archivio in apertura, che rievoca inevitabilmente, ma volutamente, l'intro di Citizen Kane, lo spettatore è accolto in medias res nello psicotico lavoro di un detective in abiti provenienti dall'iconografia cristiana e che appare a lui come assorto dalla volontà di risolvere un'indagine che inizia sin da subito ad apparire come una questione molto più grande di lui. Riuscendo a far cogliere spontaneamente o meno la prolificità di citazionismo letterario e cinematografico che il cortometraggio di Spanò offre al suo interno, come un prisma che - seppur nel suo mostrarsi briosamente spasmotico - riserva allo spettatore la libertà di scegliere quale sia la giusta traccia da seguire, lo spettatore stesso accoglie infine con piacere alcuni spunti in più con cui alimentare le sue riflessioni. Tutte innestate dalla visione e poi ravvivate nel dialogo in sala con il suo regista dopo la proiezione.
Qual’è la vera data di nascita dell’innominabile? Ma soprattutto chi è l’uomo più odiato del mondo? Alcune tracce sono già presenti nella lettura del suo nome, Ana Inosculerb, nel resoconto iniziale della sua vita, ma anche nel voler rappresentare, per crescente desiderio del DOP e del regista, un certo tipo di visione cristiana millenaria che i costumi dei protagonisti rivelano allo spettatore.
Dove si trova allora il detective che segue le tracce del passato dell’innominabile?
Jacopo Spanò: «In una società di costumi che non accetta più un certo tipo di cristianità. E in cui, alla fine, l'uomo che porta il messaggio di pace è lo stesso che viene odiato da tutti».
Avere un budget limitato in questo caso per Spanò ha rappresentato uno stimolo divertente per rendere il corto molto più underground e allo stesso tempo, per poter prendere una serie di decisioni riguardanti la realizzazione del montaggio audio definitivo, un modo per conservare un senso di straniamento nella visione che appartiene all’atto di creazione stesso.
Avere delle voci doppiate, in questo film, non significa non avere cura delle intenzioni degli attori in presa diretta, anzi, di fronte a un’inattesa difficoltà, ha stimolato gli attori a mettersi in gioco anche in qualcosa che ormai avrebbe dovuto già essere concluso.
Si può senz’altro dire che una delle cose più belle del cinema indipendente è che non ha paura di essere escluso dopo essersi inserito nel processo di selezione dei festival, che non accetta compromessi, e che in particolare riguardo a questo corto, per il suo messaggio politico e religioso, sembra andare oltre, proprio perché forse non è quello il punto. Possiamo quindi acuire la vista, tendere le orecchie. Continuare a pensare.
L’uomo più odiato del mondo termina con una citazione di Jean-Luc Godard, un regista che, come ha ricordato il moderatore in sala, Nicholas Turchi, «aveva molte similitudini tra la religione, la verità e il cinema». Ma questo di Godard è solo uno dei riferimenti alla storia del cinema da parte di Spanò in quest'opera, come per esempio «questo detective che incarna un po' i detective al cinema degli anni ’40».
Il misterioso film di Spanò si delinea in una «Genova verticale che, attraverso la sua struttura, inquadra i personaggi». C’è chi durante la visione rintraccia Truffaut e chi, per l’ambientazione di alcune scene, l’illuminazione in Barry Lindon. Insomma questo corto: «è diventato un piccolo mix» d'avanguardia, che nel suo essere surreale dà l’impressione di prendersi sul serio senza però mai farlo davvero.
Gli indizi da seguire allora potrebbero non essere propriamente quelli che il detective cerca in tutti i modi di scoprire, quanto i dettagli, i piccoli elementi, che il film potrebbe rivelare allo spettatore anche dopo una prima visione. Un po’ alla Orson Welles, insomma.
Nel cortometraggio, oltre a Bulgakov e Saramago, sono presenti riferimenti d'archivio, relativi a dittature comuniste, fasciste, naziste, fino ad arrivare ad approdare in un universo di finzione, «in un piccolo universo alternativo».
Jacopo Spanò: «Qui ho pensato a una società in cui se c'è un uomo che è odiato e basta allora non può essere altro che una dittatura, e che se c'è un uomo al potere, allo stesso tempo, c'è un uomo tanto odiato e quindi ho deciso di inserire delle immagini che riguardassero la dittatura».
L’universo alternativo che scopre L’uomo più odiato del mondo «è un mondo come il nostro, dove però, alla fine, c'è soltanto una differenza, come dice il personaggio della Maria Maddalena. C’è questo bambino che è nato e dal primo momento in cui è nato, quando era lì nella culla, tutti quanti l'hanno odiato senza un apparente motivo, e l'unico che alla fine capisce il vero motivo è il detective, perché comprende che era l'unico che lui non odiava».
In una scena iniziale del corto il narratore parla apertamente con lo spettatore, come a volerlo sollecitare a non adagiarsi sulla sua ignoranza.
Jacopo Spanò: «Sul fatto di dare al pubblico dell’ignorante: è sì una provocazione, ma non volontaria. È più un invito rivolto alla condizione umana, a fare tesoro della possibilità di poter andare oltre il suo essere segnata dall'ignoranza».
«I buddisti dicevano che si vive nella condizione di ignoranza, mentre i cristiani poi l'hanno chiamata peccato, perché la conoscenza perfetta del bene è attributo solo di Dio o di Gesù, mentre noi odiamo, odiamo il nostro prossimo, odiamo i nostri amici oppure odiamo noi stessi.
L'unico che non avrebbe mai odiato è Gesù ed è stato messo in croce. Nessuno sa niente. Ossia, in maniera molto relativa, se ci fosse qualcuno che sa qualcosa, allora andremo tutti quanti appresso a persone come Gesù, ma nessuno l'ha ascoltato. Perché il mondo è abbastanza egoista da non seguire l'unico che forse sa qualcosa. [...] Possiamo dire inoltre che la parte dell'ignoranza nel film è detta in maniera così schietta perché era anche una riflessione sul fatto che - in alcuni casi - l'ignoranza fa sì che le cose siano migliori, secondo me, sotto una certa ignoranza. Cioè, se - da regista, si pensi a un'intervista di Orson Welles sul suo primo film - mi danno dell'ignorante, penso di prenderlo in parte come un complimento, perché mi stimola a sapere ancora di più. Però posso capire che urti e non era sicuramente l’intento primario, c'era invece un piccolo citazionismo. E al contempo la volontà di smuovere il pubblico. Con un insulto che può risultare pesante, ma fatto col migliore degli intenti».




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