Il Teatro riparta da I nomi di un gioco di Alessandro Calamunci Manitta
- 17 apr
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Quando la responsabilità morale e politica incontra la responsabilità civile nasce la possibilità di veder riconosciuto il diritto alla memoria. Tale necessità viene esplorata in chiave personale quanto universale da I nomi di un gioco di Carolina Sacconi (autrice del testo dell’opera), Alessandro Calamunci Manitta (alla regia) e Michela David (alla grafica).
Lo spettacolo, portato in scena il 12 e il 13 aprile presso l'intima cornice del Barnum Semin-teatro alla Garbatella, ha incontrato la straordinaria partecipazione di tre attori in scena, Floriana Corlito, Roberta Pompili e Alessandro Bevilacqua.

A poco più di dieci giorni dall'Anniversario della Liberazione la Compagnia INstabile presenta a Roma un indimenticabile omaggio alla Resistenza italiana di ieri e di oggi.
Tratto dalla storia vera di una staffetta partigiana, I nomi di un gioco vede entrare in scena una nipote che chiede giustizia per sua nonna, la quale, vittima di plagio per mano di un noto scrittore, rappresenta ora quel bagaglio di ricordi che non dovrebbe mai essere contaminato dall'ineluttabilità della morte, dell'anonimato.
Sebbene non sappia a cosa stia andando incontro in un primo momento, la nipote della staffetta impugna sin da subito la necessità della denuncia e, seppur agisca innocentemente, è anche la prima a mostrare di non nutrire alcun timore nell’affrontare a testa alta le eventuali difficoltà che potrebbero sorgere con un'azione giudiziaria da intraprendere dal basso.
Valutati i primi ostacoli nello studio di una sua amica avvocata, nel momento stesso in cui si apre il diario e si inizia la lettura di uno degli aneddoti della nonna citati poc'anzi dalla nipote, la luce che bagna la scena si trasforma e con un minimo ma decisivo cambio d'abito si è come catapultati nel 1944.
Ad ogni pagina di diario, che durante lo spettacolo scorre in parallelo al qui e ora del racconto, corrisponde uno o più di un cambio d'abito degli attori, ai quali si aggiungono di volta in volta, nella vicenda, uno o più personaggi.
Il teatro è la chiesa degli artisti
Riportandoci a una dimensione sacra da interpretare in maniera soggettiva, per poter accedere alla dimensione del rito, il piccolo teatro che in quest'occasione ospita la suddetta pièce si presenta agli occhi del pubblico come una cornice mobile e plasmabile, ossia come uno luogo in cui riconoscersi e in grado di espandersi oltre i suoi confini con il passare dei minuti. Proprio lì dove ciascuno spettatore è stato precedentemente accolto da un sipario rosso, da poltroncine confortevoli dello stesso colore e da papaveri disegnati sulla pietra. A noi, allora, la possibilità di entrare e di lasciare accesi gli interruttori della memoria.

È che abbiamo i nomi di un gioco, e ci confondono.
Al mutare istantaneo della consapevolezza del gioco e delle interazioni che lo circondano, così come delle luci e delle ombre, o delle talvolta minime ma nette variazioni delle posizioni degli attori, quel che accompagna tale mutevolezza in scena, avvertita dal pubblico come in costante ascesa, è l’intensità del sentire degli attori sul palcoscenico, resi irriconoscibili al variare dell’intenzione scandita da ogni loro travestimento.
Innescato dalla curiosità che muove l’erede di una sopravvissuta, I nomi di un gioco parte dalla consecutiva scoperta di una fotografia lasciata senza nome per farla risuonare ancora assieme alla sua identità.
Attraversando gioie spontanee e ninna nanne che non risparmiano allo spettatore la percezione del sale nelle ferite, grazie a innumerevoli sfumature curate nei dettagli, microstorie e timbri sempre diversi, che donano al valore sempre contemporaneo della testimonianza la possibilità di prendere nuovamente vita da uno scrigno di ricordi, I nomi di un gioco è in grado di dimostrarci che un mondo migliore è ancora possibile. E se c’è un ingrediente segreto, questo è resistere, affidarsi a un insieme che possa racchiudere una sola intenzione e che in questo caso si manifesta grazie a tableaux vivants impossibili da rimuovere dal proprio bagaglio emotivo e che non fanno fatica a spaziare perfino nell’iperrealismo.

Senza memoria occupiamo posti senza però mai abitarli davvero.



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