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I piani dell’abbandono in Dostoevskij (2024) di Fabio e Damiano D’Innocenzo

  • 4 mar
  • Tempo di lettura: 4 min

Dostoevskij è il film d’autore – girato in 16 mm – di cui (non solo) la nostra generazione sentirà di aver avuto bisogno. 

Dostoevskij al Cinema Troisi
Dostoevskij al Cinema Troisi

Prima di entrare nel cuore pulsante degli eventi, lo spettatore apprende il soprannome che il poliziotto Enzo Vitello (Filippo Timi) sentirà di dare, da lì a poco, a un introvabile serial killer. Vitello si accingerà a seguire le sue tracce, ma avviando la narrazione in due atti da un punto focale preciso. Esattamente a tal proposito sarebbe impossibile non citare una perla di letteratura che a posteriori non appare tanto connessa all’omonimo scrittore, in quanto riferimento culturale strettamente decisivo nel film, quanto istintivamente accostabile al possibile parallelismo che lo spettatore sentirà di affidare a due personaggi potenzialmente opposti. Pertanto, su Vitello quanto sul suo Dostoevskij, come ricordiamo in questo primo estratto da Memorie dal sottosuolo:

L’uomo ha sempre avuto un certo timore di questo due per due quattro […]. Mettiamo pure che l’uomo non fa che cercare questo due per due quattro, valica gli oceani, sacrifica la vita in questa ricerca, ma di scoprirlo, di trovarlo effettivamente, vi giuro che ne ha come paura. Infatti egli sente che, non appena l’avrà trovato, non ci sarà più nulla da cercare. 

La scelta di suddividere la narrazione in due atti in Dostoevskij dei fratelli D’Innocenzo è indispensabile per due motivi: innanzitutto per questioni stilistiche, di svelamento, connesse al profilmico e poi per delegare – in potenza e a posteriori – un ramificato spazio all’interpretazione dello spettatore. 

Entrambe queste premesse però, riunite nel finale, presentano con sorpresa allo spettatore un crime che potrebbe ora definirsi perfetto – per alcune scelte formali – oltre che estremamente coraggioso.


Alcune questioni in Dostoevskij affiorano durante la visione come piccole parentesi, come appena inabissate fonti di ambiguità derivate dalle connessioni tra i personaggi che lasciano infine un solo spiraglio: uno scenario profondamente oscurato dall'inchiostro sulla pagina che accartocciata o macchiata di sangue appare, allo spettatore, con un tono aperto, in divenire, in cui far trapelare ulteriori, possibili, dubbi durante la visione o nuove ipotesi, suggestioni e interpretazioni in seguito a essa.

Proprio come scriveva ancora F. Dostoevskij in Memorie dal sottosuolo (1864):

Mi sono deciso a rammentare certi eventi del passato, ma adesso che soltanto li rammento, ho deciso di metterli sulla carta, voglio fare appunto questo esperimento: è possibile essere completamente franchi con se stessi e non aver paura di tutta la verità?

Il triplice tema dell'abbandono del film si riflette nei luoghi e negli oggetti trascurati, in quadri rivolti sempre in una direzione extraurbana (in cui la natura sconfina). Quest’ultima è forse la prima eco di una consapevolezza che si riflette nel protagonista. Una paura di annegare, ad esempio, in Vitello che, in alcuni momenti, sembra ricordare, (o forse tanto più evocare) nello sguardo dello spettatore un'evoluzione nuova, poiché tanto resa in chiave contemporanea, quanto - talvolta - oniricamente distorta, nella sua essenza, della fotografia ghirriana.

Natura che sconfina in Dostoevskij
Natura che sconfina in Dostoevskij

Il non-luogo rappresentato dai due fratelli poeti nel film lancia i semi per una terza via, parallela alla narrazione e quindi ai tre svelamenti dell'abbandono, che si presenta al limite tra il voler restare e il voler dirigersi verso un altrove sempre meno illuminato.


Alla triplice espansione degli spazi si uniscono anche tre piani temporali sintetizzabili nell'Ora, quando - ad esempio - lo spettatore ha come l'impressione che quel che avviene nella pellicola stia accadendo anche da un’altra parte, in quel momento, fuori dalla sala: innescando, in lui, la percezione nel sentire di una qualche simultaneità.


Sui colori, sempre dopo la visione invece, resta impresso l‘Azzurro-arancione, la furente purezza al vento di Ambra Vitello.

Quello di Carlotta Gamba, nei panni della figlia del poliziotto, è uno sguardo che sembra giustificare l’intera creazione e che almeno per tre volte, durante film, trapassa lo spettatore. Soltanto attraverso lo sguardo di Ambra, tramite la sua aggressiva purezza, dalle poltrone del Cinema Troisi si trova la forza di proseguire nella visione. Ambra guarda verso la camera dando il coraggio allo spettatore di continuare a vedere. Di capire che c'è tanto di realtà trasposta nella finzione, nel film dei fratelli D'Innocenzo, quanto di buona scrittura che - senza retorica - diventa azione.

Questo anche perché si ha la costante percezione che si tratti di una storia che volontariamente sembra voler forzare lo spettatore ad abbassare la mano che ha appena alzato d'istinto per coprirsi gli occhi avvertendo l'esigenza di voler continuare a guardare.


D'effetto è anche nella pellicola la riflessione sul maschilismo, cruda e disincantata, che si inserisce durante l'incontro tra Enzo Vitello e un testimone che, ad esempio, sa fare, ai suoi occhi, solo una cosa: cucinare.

Dalle prime frasi, dall’ascolto del roboante tono di voce di Enzo Vitello, si intuisce che si è come finiti (precipitati) in qualcosa di primordiale.

Dalla prima estenuante resistenza alla primordiale apnea nell'incipit, il film sollecita e infastidisce lo spettatore, iniziandolo alla volontà di un contrario respiro acquatico che dà, probabilmente non a caso, inizio al racconto.


È dunque forse troppo semplicistico dare al pubblico quello che inconsciamente desidera. È indispensabile invece, per alcuni, come per i fratelli D’Innocenzo, rappresentare una traccia, in questo caso duplice, reciprocamente contaminata e umana, dell’inesauribile ricerca della verità.


Sempre sui non-luoghi, nel frattempo, un bar senza insegne al limite della carreggiata è solo luce e accoglie Antonio Bonomolo che, alias Federico Vanni, è compagno di viaggio di Vitello e forse sua unica espiazione.


Battute e piccoli gesti, cenni, simulano nel film il gancio minuziosamente trascritto degli eventi a cui lo spettatore si trova ad assistere, ritrovandosi infine di fronte a ciò che non si sarebbe mai aspettato e - al contempo - riconoscendo le tracce delle sue prime sensazioni quando si era ritrovato, già nell’incipit, a tu per tu con la presentazione del caso.


Lasciando, in ultimis, il completo svelamento del triplice abbandono al secondo atto, assistiamo - gradualmente - all'ambiguità, anche, di Fabio Bonocore, ultimo arrivato e sempre più in procinto di tradirsi mostrando il suo desiderio di prevaricazione.


In conclusione una riflessione del più giovane collega di Enzo Vitello (interpretato da Gabriel Montesi) rivela quindi - in Dostoevskij - un’altra mezza, ma non meno importante, consapevolezza allo spettatore, quello riguardante un ulteriore e interessante binomio, quello che si inspessisce attraverso le due figure, agli antipodi, tra azione e intuizione.

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Roma (RM), Italia

Progetto artistico critico letterario No profit a cura di Giada Ciliberto 

Giornalista Pubblicista 

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