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La forma della voce interiore in Incipit (2022) di Beatrice Elena Festi

  • 16 feb
  • Tempo di lettura: 3 min

Come può un addio condizionare lo spazio esterno?


Incipit (2022) è la prima opera da regista dell'attrice Beatrice Elena Festi.

La fissità delle inquadrature del film, ambientato nelle cave di Porfido, in Trentino, rispecchia l'idea pregressa della regista di voler agire come se la macchina da presa fosse esterna. Con un'unica inquadratura mobile conclusiva, che - nella visione - somiglia a un tentativo della camera di voler raggiungere più che inseguire, il film inizia soffermandosi sull'ombra di un fiore, sulla reazione dei suoi petali a un'atmosfera in procinto di essere svelata.


Sulla scelta del bianco e nero: al di là della manifestazione di un puro gusto estetico, si è desidera avvicinarsi a una configurazione molto più reale. Per la regista, il bianco e nero rappresenta l'intenzione di voler «cercare di togliere il più possibile», di creare un «ibrido tra qualcosa di completamente naturale e qualcosa di sfruttato» come la cava. Quella «che incombe sui due protagonisti» e che continua a svuotarsi.


L'idea germogliativa del film è nata dalle immagini, da 7 quadri. Allo storyboard si è affiancata, poi, e in parallelo, la stesura dei dialoghi.

In Incipit (2022) le immagini, come i dialoghi, restituiscono una sospensione dallo spazio e dal tempo.

Una sospensione che si rintraccia anche nel silenzio, (quasi assoluto) che resta come preservato (tra un attacco e l'altro) anche nel dialogo. Il dialogo tra i due protagonisti si ascolta in voice over, mentre le due figure si alternano o abitano entrambe la scena, per poi abbandonarla (del tutto o in divenire).

Adam Alexander e Beatrice Elena Festi in Incipit
Adam Alexander e Beatrice Elena Festi in Incipit

«Ci si racconta i sogni», spiega la regista, «(che) è una cosa comune» ed è per questa ragione che ha sentito di far partire da lì la sua ricerca. Per raccontare, visivamente e sonoramente, in che modo l'ambiente esterno, che diviene qui anche sinonimo di un ambiente interiore, possa condizionare un addio, permearsi di un ultimo incontro.


La scelta di utilizzare la lingua inglese nel film potrebbe essere, invece, sinonimo di un distacco emotivo, rappresentato antropomorficamente - nel suo abitare la scena - da una delle due figure umane presenti nell'opera.

Tu mi hai mai amato?

La scelta di un'auto invece, posizionata inizialmente al centro della scena, non ha a che vedere con il desiderio di rappresentare quello che potrebbe essere un luogo sicuro per la protagonista, anche se solo immaginato, quanto invece di rivelare uno spazio, sì condiviso, ma scomodo, «complicato».


Uno spazio che, nel suo disvelarsi, rappresenta anche l'idea della relazione, in soggettiva, tra i due protagonisti. Un'idea a cui Lei «si aggrappa» prima di ritrovarsi nel bosco, ancora prima di mostrare quello che potrebbe apparire, allo spettatore, come un improvviso gettarsi in un cratere per poi invece trasfigurarsi nella fuga. Una fuga che, sul finale, lascia avvertire allo spettatore in che modo un addio possa essere in grado di condizionare l'ambiente stesso a partire dal proprio sentire.


Incipit sembra voler mettere in scena l'idea di una delicatezza che muore o che, per meglio dire, avverte la necessità di un ascolto e migra altrove.

Nella presa di coscienza di una devastazione interiore, la protagonista inizia quindi a spogliarsi della sua precedente idea di delicatezza per riflettersi in quegli spazi naturali sfruttati che circondano l'umano che transitoriamente li abita.

La figura femminile rappresentata dalla regista Beatrice Elena Festi diviene presenza riconoscendosi nella fuga, come quando si avverte, in prima persona, la necessità di sopravvivere, di attraversare un'idea scomoda fino all'abisso.

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Roma (RM), Italia

Progetto artistico critico letterario No profit a cura di Giada Ciliberto 

Giornalista Pubblicista 

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