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Accettare quel che non si può cambiare abbracciandosi nel risveglio: Ombra (2024) di Iolanda Izzo

  • 20 ott
  • Tempo di lettura: 2 min

Con una scena d’apertura che rievoca i tipici interni di Almodovar, e si potrebbe dire: grazie ai suoi colori, l’opera filmica di Iolanda Izzo dona innanzitutto allo spettatore l’impressione di voler indagare una suggestione.  

Ombra
Ombra (2024) Iolanda Izzo

Vediamo il suo giovane protagonista, Marco, compiere un primo gesto. Passare uno smalto fucsia sulle dita, riporre con cura il pennello nel suo contenitore, come un sigillo. Con quest’azione, semplice, e che ci fa pensare a un altro indimenticabile frame di Wes Anderson, l’autrice ci dà un primo indizio su quel non detto dal ragazzo in passato che inizia a riemergere in modo brusco. Ma è nel presente che questo accade, ed è una sensazione che chiunque potrebbe avvertire nel mezzo di un involontario risveglio. 

 

Eppure, se quell’estrema segretezza evocata da Margot Tenenbaum incuriosiva gli occhi della camera già nel 2001, trasportando lo spettatore a ritroso nell’infanzia della giovane, tra le sue fughe e le sue non risolte incomprensioni paterne, il giovane protagonista di Ombra, Marco, è in parte ancora fermo lì, in un tempo di mezzo, tra la trasfigurata necessità di una fuga, presente, e l’emergente desiderio di restare, nel passato. 

 

Ombra (2024) si muove così tra passato e presente, tra conscio e inconscio. Il colore dello smalto – dall’inquadratura – passa al contenitore, soltanto materialmente rimane in esso, per iniziare a dipingere sensorialmente, ai nostri occhi e alle nostre orecchie, un rimpianto. Scegliendo quindi come punto focale, per questa transizione, quello che potrebbe sembrare, al primo sguardo, un gesto banale, ci si accorge che l’ascolto del protagonista e dello spettatore è proiettato in una cornice intima, domestica, familiare, e al contempo speculare a una società che parla per generalizzazione e sui mass media; che traccia, scena dopo scena, i contorni del disagio e della difficoltà di porvi rimedio nell’età adulta come nell’adolescenza. La sorgente, per Marco, immutabile come un flacone di smalto non più utilizzato, è quella dell’amore per suo padre, rimasto così – a metà – nel confine tra dicibile e indicibile, tra vita e morte. 

 

Il ragazzo, ora giovane uomo, manifesta la sua oppressione in crescendo, e il film di Iolanda Izzo – in questo senso – acquisisce un significato sempre più profondo.

Ad esempio, rispetto a quel che accade ne I Tenenbaum, quando il gesto dello smalto viene compiuto da Margot, notiamo che quest’ultimo si svolge già ben oltre la parete di una stanza chiusa, in un ambiente che sin dall’inizio delimita i confini della co-protagonista nel presente. In Ombra invece la scena si svolge nel passato; Marco si trova oltre una porta che inizialmente viene lasciata aperta – chissà se soltanto per una sua leggerezza o per un mix di desiderio e paura che potrebbe dar vita al sublime – quel che conta però è che quella porta verrà poi chiusa a chiave da lui precipitosamente. Con un clic, come sottolinea la regista, si definisce in Ombra: «il confine invalicabile tra padre e figlio».

Ombra
Ombra (2024) di Iolanda Izzo

Il primo gesto di liberazione di Marco quindi, in un momento di intimità, traccia la strada per un elisir che ritorna, un veleno-elisir junghiano quanto vogleriano che, nel suo viaggio, torna per denudare l’empatia, proteggerla, e finalmente invitarla in un postumo abbraccio. 


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Roma (RM), Italia

Progetto artistico critico letterario No profit a cura di Giada Ciliberto 

Giornalista Pubblicista 

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