Un mockumentary oltre il mockumentary, Sara Spadoni: una vita oltre le sbarre (2024) Giorgia Remediani
- 9 feb
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In quella che sembra un’intervista per un programma televisivo dal nome Una vita oltre le sbarre, Sara Spadoni ricostruisce la sua quotidianità a ritroso, a partire dal momento del suo incarceramento fino a quello del suo ritorno a casa. Nel frattempo, mentre il presente della ragazza lascia evincere in che modo la sua vita sia cambiata, le pause della troupe, le interferenze degli abitanti del suo quartiere e infine l’accoglienza riservatale in casa dal suo ragazzo, iniziano gradualmente a mostrare la vera essenza di quelle che diverranno soltanto le tracce di un fallimentare documentario appena approdate in un distopico futuro.
Il mockumentary di Giorgia Remediani è un film che mette continuamente alla prova la sua abilità nel muoversi, come una creazione ibrida, tra diversi generi cinematografici e l’inaspettato, per mostrare infine un’ironia che – nel gioco dei paradossi – sa prendersi molto sul serio, ma senza dover per forza delegare agli attori il compito di ereditare una morale.
Se lo stile di vita di una ragazza appena uscita da una Casa Circondariale Femminile, in Italia, potrebbe difficilmente essere diversa da com’era in precedenza, quella di Sara – la protagonista del mockumentary – non è da meno. Eppure, durante la visione, si ha come l’impressione che se il film avesse scelto quest’univoca strada sarebbe finito ancor prima di iniziare.

Il beep che si ascolta nell’incipit, infatti, contiene già un avvertimento per lo spettatore, proprio come se il film stesso volesse lasciar intendere – più di tutto – che il rischio più grande che sta per correre sia proprio quello di trasformarsi in qualcosa di estremamente didascalico, nonché di stare per anticipare la visione di quel che potrebbe essere, banalmente, un documentario sulla vita di un’ex detenuta, ovvero: mostrare allo spettatore un totale stravolgimento, l’escamotage che ha l’obiettivo di mettere in luce il fittizio cambiamento di Sara (per poi trasformarlo in un elemento funzionale al suo reinserimento in società), oppure rivelare un’assoluta verità fine a se stessa: nulla – almeno intorno a lei – è cambiato.
Attenzione però, cosa potrebbe accadere se entrambe le ipotesi fossero soltanto un’illusione? Mostrandole entrambe, il film trova da solo il suo punto di forza: quello di trovarne una terza.
Le intenzioni degli autori del mockumentary, inizialmente dichiaratesi a favore di denuncia e speranza, seguono poi le fittizie testimonianze che ruotano attorno a Sara, la ragazza che, dopo 18 mesi di reclusione per furto aggravato, rivela da sola la natura ibrida del film, poiché quest’ultima sarà direttamente proporzionale a quella della sua protagonista.
Mentre il film scorre sembra di sentire più voci in sottofondo, voci che librano domande come le seguenti:
Se la prigione non è in grado di migliorare le persone, le peggiora? Può essa stessa creare dei mostri che prima non esistevano? O ancora – questi mostri sono umani?
L’intenzione di sorpresa e incertezza nello sguardo di Sara, contenuta dal fermo immagine iniziale, nonché nella sua ripetizione, somiglia alla Monna Lisa. Se la sua vita, infatti, resta o non resta la stessa, perché siamo in un film, il suo sguardo trasmette di volta in volta un’intenzione diversa e di cui è difficile decifrarne la direzione, un’intenzione che talvolta fa davvero paura.
(Che sia rabbia repressa in un mondo di abusi? Non solo.)
Il fatto, ad esempio, che non sia propriamente un errore che le sbarre si chiudano e vengano anche sonoramente sigillate, sul volto di Sara, quando, in realtà, si dovrebbe parlare di libertà ritrovata, potrebbe non essere una scelta registica dettata dal caso.
Nel frattempo, alla metafora connessa al comportamento contraddittorio da dover adottare dopo essere usciti di prigione, per far fronte alle precedenti premesse o fosse anche soltanto per far bella figura, in virtù della realizzazione di un documentario sulla proprio condizione, il primo ciak di ogni sequenza del film resta quasi sempre riservato al dubbio, ossia a quale potrebbe essere – da parte della protagonista – il comportamento più adatto da adottare di fronte alla camera (ma non solo per la buona riuscita del mockumentary).
Della serie: cosa vi aspettate che faccia? È un documentario, ma – ovviamente – non posso raccontarvi la realtà. O meglio ancora: voi non volete conoscerla. Volete, invece, un messaggio di speranza credibile, basato quindi sulla fittizia redenzione di un giovane donna uscita di prigione. Una denuncia nella denuncia è quindi quella di Giorgia Remediani e della sua troupe, che poi diventa altro e che risulta per questo meritevole di lode ad honorem.
Seguendo sempre il tema della denuncia meta-cinematografica, all’idea di riprodurre con ironia una certa idea di ricerca della qualità, già nel motivo iniziale del film sembra di sentire l’eco della sigla di Boris, per poi passare, poco dopo, a una nota citazione di Valerio Lundini e infine a un’altra, forse più facilmente riconoscibile, di Tiziano Ferro. Sembra quindi, in alcuni momenti, di riascoltare in parallelo il nastro degli slogan di chi pretende che la vita sia migliore soltanto perché si sono attraversate le sbarre di una prigione, per ridere nel tempo libero e quindi uscire illusoriamente all’aria aperta e, d’altro canto, di chi desidera invece ancora muoversi nell’ambito della nuova commedia all’italiana 2.0.
Sul dettaglio tecnico-formale, invece, nell’accorgersi che, durante la visione, non manca neppure lo scorrimento di titoli oltremodo adatti alle logiche del clickbait, bene si intersecano – al contempo – anche i due piani del mockumentary, specialmente quando, ad esempio, traspare – in un lampo – la scelta della regista, o di chi per lei, di far susseguire la fuga di Paolo, il ragazzo di Sara, alla fuga del ciacchista durante le riprese.
Le espressioni degli attori, in alcuni casi, raccontano più delle battute, eppure la realizzazione minimale dei dialoghi ben si lega all’immediatezza di un credibile e contemporaneo affaccio sulla superficialità con cui agiscono e pensano alcuni dei personaggi del film, come – ad esempio – il trapper X-Boy e lo stesso Paolo, i quali risultano entrambi, per questo motivo, tanto ingenui e deleteri quanto di forte impatto per la buona riuscita del film.
Se la forza dei dialoghi, in alcuni casi, si rintraccia anche nel loro modo di dire l’opposto di quel che mostrano le immagini, il momento in cui la camera va in modalità Rec. viene segnalato dall’istantanea correzione del colore rispetto al precedente anonimato delle immagini di repertorio. Nel montaggio sembra si sia preferito quindi utilizzare un aumento della saturazione e del contrasto per poi rivelare, in questo caso, il tipico crescendo di una situazione potenzialmente surreale.
Oltre lo sguardo in camera, la ripresa continua e la cosa più buffa quanto geniale del mockumentary di Giorgia Remediani è che le sue location, e i presupposti del documentario di cui si fa beffa per poi plasmarlo à nouveau, sembrano talvolta trasformarsi in un confessionale, nella quindi breve ricostruzione di quelle tipiche e intime situazioni su cui tendenzialmente gioca il format televisivo del reality.
Ciò accade anche grazie alla voluta scelta dell’eccesso, alla mediazione di uno sconosciuto che, investito del ruolo di mentore dell’imprevedibilità, contribuisce, oltre che a far entrare due dialetti in contrasto tra loro, anche a far sfociare, sempre di più, il piano filmico nella catastrofe.
Quel che è interessante di questo film è che a un certo punto non si comprende più quali siano i suoi limiti. Quello di Giorgia Remediani è, infatti, sì un mockumentary, ma dov’è che finisce il film che si dovrebbe far finta di girare?
Il colpo di scena della morte del microfonista scardina infine tutte le certezze e rompe definitivamente la parete interna tra troupe e attori, nel frattempo il cameramen scappa e il resto diventa storia…
Perfino il brano (del “king” della) trap di X-Boy (più volte interrotto durante la visione) può finalmente essere ascoltato (nella sua interezza) dallo spettatore nei titoli di coda.



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