Identità, libertà e fotografia come sinonimi in I’m Not Everything I Want to Be (2024) di Klàra Tasovská
- 5 giu
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Il ruolo della donna è quello di creare la vita, non semplicemente di portarla. Creare emozioni, sogni, passione - questo è il ruolo della donna.
Anaïs Nin, diari.
Seguendo la scia di quanto sottolineato da Steve Della Casa in sede di apertura della terza edizione di Unarchive Found Footage Fest, ossia che gli archivi devono essere amichevoli per gli studiosi di cinema, il film di Klàra Tasovksá, sulla fotografa ceca Libuse Jarcovjakova, sembra ben riconoscersi nel rapporto che questo festival sul riuso creativo delle immagini ha con il suo pubblico, ossia che, sempre prendendo in prestito le parole del critico cinematografico e direttore artistico, dimostra che si può fare cultura senza cercare la facile notorietà.

I’m Not Everything I Want to Be (2024) di Klàra Tasovská riflette però anche quanto ha osservato Marco Bertozzi in presenza di Alina Marazzi - e quindi la direzione artistica di UnArchive Fest in apertura - ossia di avere accesso attraverso questa manifestazione a un cinema ribelle e che dona la possibilità di raccontare storie che non sono mai state raccontate o che finora sono state inserite in paradigmi rigidi.
Per presentare al pubblico in sala I’m Not Everything I Want to Be (2024) l'autrice del lungometraggio è intervenuta in collegamento da New York.

Klàra Tasovská: Il film inizia dal titolo, ovvero dal diretto riferimento all’incredibile fotografa ceca Libuse Jarcovjakova che è la sua protagonista.
La storia di questo progetto ha avuto inizio cinque anni fa. Quando ho incontrato per la prima volta Libuse.
Ha raggruppato le foto di tutta la sua vita, di quando era ancora sconosciuta al pubblico ceco e internazionale.
Nel 2019 ha avuto la sua prima grande esposizione in Francia e da lì la TV ceca mi ha chiesto di fare un film su di lei. Ma io sono rimasta impressionata dalla personalità di questa fotografa e dalla immensità del suo archivio e ho deciso di fare un film più grande, diverso. Poi abbiamo iniziato a parlare con lei per capire quale film desideravamo realizzare e lei non voleva apparire, ha spiegato di non voler apparire.
Poi con la pandemia che è iniziata, mentre tutti dovevano stare in casa, lei ha iniziato a scannerizzare i suoi archivi. E io ho iniziato a conoscere la sua storia e tutto il suo materiale, anche i suoi diari, e ho compreso che c’era tutto il materiale per realizzare un film.
Ho letto tutti i suoi diari e ho iniziato a leggerli tutti. Nel frattempo ci siamo resi conto che avevamo già oltre settemila fotografie nel nostro computer.
All’inizio il mio archivio era disorganizzato e abbiamo fatto un grande lavoro per riorganizzarlo.
Anche per lei era importante che emergessero sia gli avvenimenti connessi alla politica che si stavano svolgendo in quel determinato momento che la sua storia personale.
Abbiamo lavorato due anni sul montaggio con il mio collega che ci ha aiutato e che è stato molto coraggioso e infine lo abbiamo diviso in più capitoli.
Grazie per essere venuti.

Abbracciando un andamento circolare, oltre che la sua fotocamera per tutta la sua vita fino a oggi, la fotografa Libuse Jarcovjakova continua a rivolgere a se stessa una domanda - proprio come accade nel film. Libuse continua a chiedersi: Chi sono?
Questa domanda è accompagnata dallo sfarfallio stroboscopico della pellicola e dal suo costante desiderio di fotografare - come spiegherà lei stessa, nel film di Klàra Tasovskà: sin dall'età dei 16 anni. Quando Libuse ha iniziato a imparare, quando ha iniziato a utilizzare la fotocamera.
I diari di Libuse guidano il montaggio del film attraverso la sua voce, creando il resoconto fotografico della sua vita in versione immersiva e donando quindi allo spettatore una visione molto spesso in prima persona della sua protagonista.
Il pensiero e le azioni di Libuse sembrano rispondere esclusivamente a un sempre più presente e personale desiderio di libertà. Libuse, infatti, è una fotografa che sfugge più volte, e per scelta, alla comune condizione di vivere in funzione della maternità. Si circonda di chi la affascina per il suo stile di vita o di chi è abituato a vivere in totale presenza, come se il domani non esistesse, di chi, insomma, dimostra di vedere le cose in maniera diversa. La prima fra queste illuminate presenze per lei sarà una donna di nome Ester, che porterà nella vita di Libuse anche il fascino dei suoi cari riferimenti alla Nouvelle Vague.
Allo scenario opprimente in cui vive nella sua città, Libuse desidera costantemente allontanarsi da quella che definisce la gabbia comunista, ma ci riuscirà davvero e per la prima volta soltanto nel 1979. Quando, dopo essere atterrata a Tokyo, utilizzerà per la prima volta i colori nello sviluppo delle sue fotografie, per poi nuovamente tornare al bianco e nero, e riscontrerà un interesse verso i suoi scatti da un nuovo amico, un certo Katsuya.
Quel che resta indelebile nella mente dello spettatore, in tutto questo turbinio, è che Libuse non smette mai di fotografare, nell'intimità come nella vita sociale. E quanto più il film procede, donando allo spettatore l'impressione di star accompagnando Libuse in ogni suo viaggio o in ogni sua esperienza, tanto più chi lo guarda percepisce i pensieri della protagonista dal suo modo di fotografare, dal suo modo di guardare alla vita.
LIBUSE - L'unico modo per sopravvivere è fotografare.
Libuse torna a Praga nel 1980, chiedendosi perché non possa vivere alle sue condizioni ed esplicitando le sue intenzioni di interrompere questo ciclo che la porta a voler sempre ricominciare da zero e a tornare al punto di partenza.
LIBUSE - Se viaggiare è impossibile [...] sarà meglio un'immigrazione interiore.
Percependo la vita diurna come totalitaria, al suo rientro Libuse mostra di preferire la notte e di frequentare il T-Club fin quando potrà fotografare liberamente la vita che passa in fretta.
Nel 1985 inizia un nuovo capitolo. Il film segna l'inizio di un nuovo capito scandendo le pause per ogni città in cui Libuse approda. Stavolta sarà la volta di Berlino, la città divisa la vedrà ricominciare da capo e confrontarsi per la per la prima volta da vicino con il muro che separa la Germania Est dalla Germania Ovest .
Nel 1986 ricomincerà ancora e tornerà a Tokyo, consacrando stavolta quello che credeva potesse desiderare sin da quando ha realizzato il suo primo scatto. Libuse inizia ad essere una fotografa riconosciuta e a essere ben retribuita. La fotografia diventa a tutti gli effetti il suo lavoro, collaborando con riviste prestigiose. In questa parentesi Libuse non perde la sua ironia manifestando una sua riflessione personale sul successo.
LIBUSE - È facile risultare originali, basta mettere una maglietta firmata nella sabbia.
Libuse scrive nel suo diario che non sta cercando qualcosa che la potrerebbe alla fama ed è anche per questo motivo che ora che è entrata nel circuito commerciale si chiede se è quello che vuole realmente per poi decidere di tornare indietro, di ricominciare da capo.
Nel 1989 torna a Berlino, in tempo per assistere alla caduta del mostro del muro e vivere emozioni di un'intensità mai provata. Poi torna nuovamente a Praga e fotografa i manifestanti. Sui loro cartelli, grazie a Libuse, vediamo scritte come: Nessun manganello spezzerà il nostro cuore.
LIBUSE - Finalmente faccio le mie foto. Anche se faccio la cameriera sono una fotografa, forse anche di più. Fotografare è uno strumento di navigazione. Mi serve per ritrovarmi.
Il diario intimo di Libuse lascia allo spettatore la sensazione di averla conosciuta realmente. Se il quesito guida della fotografa è non smetterò mai di chiedermi chi sono, al contempo Libuse riesce a far trapelare come dall'intimità da lei fotografata in realtà lei non desideri mostrarsi allo sguardo altrui al momento dello scatto.
L'ultimo capitolo si apre con Libuse che torna nella sua città. Lì afferma che per la prima volta nella sua vita tutto le è chiaro.
LIBUSE - Voglio tornare nel luogo da cui una volta volevo sparire. Casa.




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