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Oltre il cinema del reale con Luce (2025) di Silvia Luzi e Luca Bellino

  • 21 feb
  • Tempo di lettura: 10 min
  • Il cinema: Noi crediamo negli spettatori.

  • Gli spettatori: Noi per salvarci ci inventiamo un’altra vita.

Marianna Fontana in Luce
Marianna Fontana in Luce

Mi ha ricordato Elio Petri, ma una classe operaia delle donne che non va in paradiso perché è una coscienza di classe che va oltre il reale mostrandoti il reale, dove c’è ancora un'umana speranza, quel desiderio che resta.

Il film – a livello cinematografico – è super esaudito. La figura del fotografo, ad esempio, è una traccia indispensabile e indelebile. La scia del cinema che segue dapprima la protagonista e si inserisce nell'andirivieni della voce misteriosa – del sonoro – nel crescendo del suo timore di non riconoscere quella voce e che poi la fa ritrovare; mentre il fotografo la fa vedere da fuori. Lei si vede per la prima volta da fuori nel suo non poter vedere, nell'esaudire quel sentire davanti allo spettatore secondo cui i desideri sono meglio delle promesse.


Che cosa c’è fra quello che si vede nella realtà per quella che è e quella che vorremmo che fosse? O che dovrebbe essere? Introduce così il dibattito in sala, dopo la proiezione di Luce (2025) di Silvia Luzi e Luca Bellino, Marta Rizzo, invitandoci a riflettere sulla necessità di comprendere, anche attraverso le emozioni, l’inesistenza dell’uguaglianza dei diritti umani che vengono negati in vari modi.

Mentre una profonda consapevolezza su quel vuoto che non si colmerà mai inizia a farsi strada tra le poltrone della sala del Cinema Farnese di Roma si inzia col citare uno dei più grandi registi italiani, irpino, che era Ettore Scola.

Dopo Trevico-Torino (1973) Luce (2025) rappresenta uno dei pochissimi film italiani che sono veramente girati in Irpinia e che parlano dell’Irpinia in modo diverso, concentrandosi sulle disuguaglianze.

A tal proposito Ettore Scola diceva una cosa veramente importante, ossia che sicuramente parlare di certi temi è necessario. Non utile, quindi, ma necessario.


La cosa che ci dovrebbe far riflettere, come continua Marta Rizzo seguendo la scia della polvere sollevata da Luce di Silvia Luzi e Luca Bellino, è che parlare sempre delle stesse cose, delle disuguaglianze, vuole dire che queste non sono state risolte e che forse, allora, dovremmo riflettere di più sul fatto che il nostro Stato, le nostre leggi, la nostra società civile, i nostri sogni non sono stati in grado di cambiare la realtà.

Soffermandosi sull'unione assoluta di questi registi, che hanno fatto un lavoro cinematografico a suo dire molto importante, emerge un'altra riflessione fondamentale sulla libertà d’espressione nella cultura italiana, spiegando come quest'ultima potrebbe non essere destinata a ripiegarsi su se stessa, soltanto qualora inizii a far parlare liberamente del lavoro, dei giovani, dell’ambiente e delle conseguenze delle nostre azioni sull’ambiente.


E in questo film tutto si tiene, si tiene il lavoro, si tiene la disperazione, si tiene il carcere, la coscienza di classe, la rabbia, il sogno, la ricerca di un altrove. Tutto attraverso l’utilizzo della realtà com’è e della realtà come dovrebbe essere anche utilizzando il cinema e quello che fa il cinema con le immagini.

 

 

Luca Bellino: In realtà la scelta stilistica, che è chiara – netta, nasce da una nostra esigenza di non trattare la storia di Marianna, del personaggio di Marianna, come la storia soltanto di quell’individuo in quella condizione. Infatti Lei non ha nome.

Ma attraverso l’esperienza del film, cioè soffrire a non vedere, ci sono due problemi artistici che abbiamo affrontato.

Uno è coinvolgere lo spettatore nella visione. E quindi l’immaginazione non è soltanto quella che poi il personaggio arricchisce un po’ alla volta con le bugie, ma dev’essere anche quella del pubblico.

Deve perché noi crediamo nello spettatore.

È un po’ il film anti-algoritmo, se vogliamo.

Cioè un tipo di scrittura che è piena volutamente di buchi che vanno colmati.

E l’altro ordine di problema affrontato, dopo lunghissime discussioni, è che in fondo il nostro campo visivo si è ristretto. Non si è ristretto solo per l’alienazione della vita in fabbrica, ma si è ristretto per l’assenza di contatto corporeo, per l’assenza di vita di comunità.

Quindi l’esperienza del film, parlo di esperienza perché proviamo a fare un cinema sensoriale, un cinema che coinvolge un po’ tutto.

Quello che vive il personaggio non è molto diverso da quello che vive ognuno di noi.

È qualcosa che non ci immaginavamo, è che ci è successo in queste settimane in cui abbiamo molte matinée con le scuola, è che soprattutto i ragazzi si rivedono nel personaggio di un’operaia in una fabbrica, in un paesino tra le montagne in Irpinia, perché dicono: noi facciamo la stessa cosa, noi per salvarci ci inventiamo un’altra vita.


Spettatore: Quindi le telefonate le avete fatte in diretta?  

 

Silvia Luzi: No. Tommaso (Ragno) è arrivato in una fase di lavorazione successiva, quindi il lavoro di Marianna è stato complessissimo, perché lei davvero era sola al telefono.

Poi con Tommaso abbiamo lavorato in studio, quindi Tommaso ha lavorato su Marianna. E ha fatto un lavoro immaginativo. Lui doveva interpretare un personaggio chiuso, privato della libertà. Quindi doveva semplicemente evocare e non è semplice lavorare, per un attore, senza corpo. Soltanto con la voce. Quindi entrambi hanno fatto un lavoro separatamente, quindi è stato difficoltoso. Il suo (di Marianna) è stato complesso perché non ha avuto neanche un attore come spalla, è stata completamente sola, e Tommaso – anche.

Dalla sala di registrazione non usciva mai, perché doveva avere il senso di chiusura.

Quindi se registravamo 8 ore, lui era 8 ore dentro, non usciva mai da quella stanza per entrare nel personaggio e dare a noi quelle sfumature.

 

Marta Rizzo: Ci sono delle cose che non sono scontate ma credo che sia giusto spiegarle.

Il lavoro dell’inchiodatura delle pelli è una parte dell’ingranaggio del lavoro nelle concerie molto particolare perché è un lavoro sommerso, è un lavoro pagato tre euro l’ora a cottimo. Qui è una fase sostanzialmente sommersa. Dove l’80% dei lavoratori sono donne, ma ci sono anche uomini, migranti. E l’80 di queste donne stanno a contatto con questo rullo bollente e non solo le mani vengono costantemente bruciate, ma sono quasi tutte potenzialmente impossibilitate ad avere figli e molte, moltissime di loro, contraggono tumori all’utero e all’addome.

Ora è chiaro che tutto questo significa un’idea di disuguaglianza che si tiene poco con la ricerca di un altrove in cui fuggire.

Infatti la coscienza di classe di cui parlavo prima che ha questa ragazza è la coscienza di una donna fortemente arrabbiata.

Marianna, ad esempio ha lavorato 4 mesi, per preparare questo film, in questa conceria, e nessuno sapeva che fosse un’attrice. Quindi ha fatto un lavoro veramente mirabile.


Marianna Fontana: Per preparare questo film sono stata molti mesi in fabbrica mentre nessuno conosceva del mio ruolo, del cinema. Ero in anonimato e questo mi ha dato una grande libertà. Ho lavorato dalle 6 del mattino fino alle 6 della sera, sull’inchiodatrice. E – come ha detto Marta – le pinze scottano e quindi tu ti bruci le mani. Oltre che le gambe sono pesanti, ci sono tanti rumori, quindi solo parlare con una persona è davvero faticoso.

Ricordo che dopo due settimane di lavoro intenso volevo davvero mollare. Perché era molto duro.  E poi c’è anche lo step superiore, che in realtà diciamo poco (nel film), che è il bottale, che è ancora più faticoso come lavoro. In cui prendi le pelli pesanti e le trascini su per tre piani.

È stato molto bello, anche se molto faticoso. Perché sì ho conosciuto delle donne strepitose, che mi hanno raccontato le loro vite, ed è stata un’esperienza per me veramente formativa. Che poi sono le ragazze che avete visto, davvero attrici strepitose. Nessuna è un’attrice, ma sono tutte delle attrici strepitose, che mi hanno donato tantissimo e ho sentito la grande responsabilità poi di raccontare questo personaggio.

 

Luca Bellino: La sceneggiatura è scritta in prima persona – lei non la conosceva – ma era stranamente scritta in prima persona, perché è un film in prima persona.

Luce al Cinema Farnese con Silvia Luzi, Luca Bellino, Marianna Fontana, Marta Rizzo e la Casa Internazionale delle Donne
Luce al Cinema Farnese con Silvia Luzi, Luca Bellino, Marianna Fontana, Marta Rizzo e la Casa Internazionale delle Donne

Marianna Fontana: Poi la cosa bella è che tante volte capita che tu arrivi ed è già tutto pronto. Invece, in questo caso, dopo il lavoro in fabbrica ci vedevamo con Silvia e Luca e io raccontavo l’esperienza che vivevo giornalmente in fabbrica, proprio il lavoro, come mi sentivo, il corpo come cambiava, perché ammetto che il mio corpo è cambiato in qualche modo, proprio nella postura, nella chiusura, perché io sentivo davvero la rabbia, la ribellione che ha questa ragazza. E le telefonate erano davvero qualcosa che mi dava una libertà famelica. E quindi raccontavamo questo dopo il lavoro, e abbiamo fatto questo per tre mesi e poi è arrivata la sceneggiatura.

 

Luca Bellino: L’inchiodatura delle pelli è una fase intermedia, le pelli prima vengono pre-lavorate in conceria, passano in queste fabbriche che sono del terziario e tornano in conceria. Le concerie rispettano alla perfezione tutte le regole imposte dall’Unione Europea, in queste è impossibile per ovvie ragione costerebbe troppo farlo e quindi esternalizzano.

Nella fabbrica che abbiamo scelto come location abbiamo lavorato anche con i proprietari, anzi uno dei proprietari recita nel film e fa l’operaio che viene picchiato. Abbiamo ribaltato i ruoli perché quello che lo picchia è un operaio semplice.

Abbiamo fatto sopralluoghi anche in Toscana e in Veneto, perché comunque è un processo intermedio che serve sempre. Questa fabbrica era adatta come location, ma aveva anche le condizioni migliori.

Abbiamo scelto Solofra per ragioni anche paesaggistiche, perché era circondata da montagne e quindi è lo stato d’animo del personaggio, che non vede l’orizzonte, e poi ci interessava perché quelle pelli, perché Solofra è specializzata in pelli per l’alta moda, quindi le pelli che avete visto ora sono borse Gucci, Prada.

 

Silvia Luzi: Sul bottale, noi non abbiamo inventato nulla. L’isolamento nelle fabbriche è abbastanza normale. Il fatto di essere messi isolati è un procedimento abbastanza comune. Come è anche normale chiedere di andare in bagno, c’è un rullo che va molto veloce, perché la produzione non si può interrompere, quindi devi alzare la mano e chiedere di essere sostituito.

Non è la fabbrica col padrone, è il concetto di produzione che prevede che ci sia un prodotto da realizzare nei tempi per poterlo consegnare.

È chiaro che è complesso, che se sei una donna ti stanchi, perché hai le ovaie.

Le mani se le feriscono anche gli uomini.

 

Spettatore: Come avete lavorato con loro?

 

Luca Bellino: Provare tanto. Abbiamo provato tanto, non solo con Marianna, ma anche con loro.

Abbiamo fatto circa mille provini per questo film, come ne avevamo fatti anche per Il cratere (2017), non così tanti, perché lì cercavamo proprio una figlia, ma quello che facciamo durante queste prove è costruire ruoli. Non sono così loro, hanno costruito dei ruoli, l’unica cosa che forse abbiamo preso sono alcune battute (nate da alcune situazioni) ma di fatto è scrittura scenica.

Nascono nelle battute. Noi avevamo già delle scene, c’erano già i ruoli delle quattro donne scegliendo i profili più adatti, ma si è poi costruito tutto durante le prove.

Lo stesso vale per la voce al telefono. Abbiamo simulato quelle telefonate in varie carceri, soprattutto a Poggio Reale, abbiamo avuto tante ore a disposizione simulando l’arrivo di un telefono. Ovviamente abbiamo preso tanti appunti e poi abbiamo riscritto e molto nasce dall’esperienza. Anche Il cratere era totalmente riscritto e molti hanno pensato che fosse realmente così.  Anche lì abbiamo invertito i ruoli, il padre era un angioletto e il figlio un demonio, nel film è il contrario.

 

Spettatore: Come avete fatto a dividere, a separare? A togliere molto più che a mettere?

 

Luca Bellino: Il film è totalmente in sottrazione. E potete immaginare quanto sia difficile non raccontare per esteso, se non per qualche linea, per qualche battuta, la storia delle ovaie bruciate o allargare il personaggio del fotografo che amiamo follemente, perché per noi è una chiave di lettura del film.

Però è un film in sottrazione, ma anche la recitazione è fatta in sottrazione.

Perché sul primissimo piano era molto facile esagerare. Noi abbiamo sottratto da tutto. Abbiamo forse più che sottratto abbiamo svuotato.

Le mani di un'operaia nell'acqua salata in Luce
Le mani di un'operaia nell'acqua salata in Luce

Marta Rizzo: È un film di svuotamenti ma anche di grande capacità di coinvolgere emotivamente e intellettualmente lo spettatore, e soprattutto in quelle scene – come dire – rubate durante i pasti.

Questo film ha una particolarità, che riesce a far entrare lo spettatore in zone nelle quali in cui solitamente non si entra.

Anche nell’odore del caffè, nella carta stagnola dei panini, nei brutti rapporti. Sì, solidarietà? Operai e solidarietà…

 

Silvia Luzi: La comunità operaia è una comunità disgregata. Ci sono le fabbriche in cui si dà la possibilità di aggregarsi, ma sono poche. [...]

Siamo stati in tantissime fabbriche nel nostro percorso lavorativo, perché il tema del lavoro è il tema che ci interessa. Però oggettivamente c’è una disgregazione. Non c’è una generazione nuova che vive il lavoro come lo viveva la generazione precedente. C’è una difficoltà di aggregarsi perché è un lavoro, anche qui, molto stancante.

Marianna lo sa. Marianna tornava a casa e non ce la faceva neanche a prendere un aperitivo e non lo faceva da trent’anni e lo faceva fondamentalmente da poco.

Quindi era inutile stare lì fare l’epopea a fare l’epopea dell’operaio che vince o del povero cristo del soffre, c’è bastato osservarle e appunto andare a sottrare, perché quello che si doveva vedere poi fondamentalmente si vedeva. Il volto di queste donne, sono donne stanche. Il lavoro si vede. È inutile andare a indugiare, a raccontare, a totalare qualcosa che è lì. Per chi lo vuole vedere, poi chiaro che c’è necessità di respiro, e di vedere un po’ di più per comprendere.

Ma l’indugiare, l’osservare bene il rapporto tra di loro, anche lì… Ci son bastate tre battute per far capire che c’è una grande sorellanza quando c’è bisogno, ma anche un nervosismo dato dalla stanchezza.

 

Marta Rizzo: E dalla necessità di campare. Io la chiamo Luce. Per me Luce è Luce. Ero convinta, non mi sono posta il problema, che non avesse nome, perché Luce è il nome della protagonista.

Qui - poi - c’è un altro aspetto. Per questo parlavo dell’importanza della cultura in questo Paese.

Questo film ha avuto un grande successo di critica, perché bisogna dare grande dimostrazione di bravura nello spiegare un film, il visto, il non visto, la voce off, i fuori fuoco, gli operai che sono veri operai…

In realtà bisognerebbe soffermarsi di più su questa questione del lavoro. Se la disgregazione c’è e allora dobbiamo ribadire quello che diceva Ettore (Scola), è perché i problemi non sono stati risolti.

Perché non solo non li vuole risolvere la politica o le istituzioni, ma neanche gli intellettuali che hanno un ruolo fondamentale. Per quello che ci diceva Gramsci, cioè di dire quel che succede nella contemporaneità e riportarlo per come succede e soprattutto riuscire criticamente a superare le criticità.

E queste non vengono superate.

E in questo film c’è un sottotesto. C’è il carcere. Un sottofondo. E lì un altro problema. Non c’è solo il lavoro.

Quest’anno i dati danno un sovraffollamento carcerario del 132%. Quindi c’è un altro problema.

Il problema non è punire chi commette reato. Il problema è dove relegarli.

E anche qui c’è un uomo, la voce di un uomo, che si inventa anche lui una realtà che non esiste.


Parole chiave


Un film tutto costruito sul fuori campo, sul sonoro.

I nostri sogni non sono stati in grado di cambiare la realtà.

È necessario parlare di alcuni temi, (per) che non sono ancora risolti.

Libertà d’espressione.

La ricerca di un altrove, utilizzando la realtà com’è.

Soffrire a non vedere.

L’immaginazione degli spettatori.

Andare oltre il realismo, desiderio di condividere uno stato d’animo.









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Roma (RM), Italia

Progetto artistico critico letterario No profit a cura di Giada Ciliberto 

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